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09 marzo 2008

In bicicletta con tabarro e cappello

ven. 19 settembre 2003 In bicicletta con tabarro e cappello

Quando il paese era ancora un piccolo centro agricolo e artigianale che nei giorni di mercato, nella vastissima piazza acciottolata, si popolava di contadini vestiti con un ampio tabarro e un cappello di feltro, apparentemente inamovibile, il mezzo di locomozione era la bicicletta, non ancora impoverita al diminutivo infantile di bici, né estraniata come mountain o city bike.

Il tabarro non era affatto scomodo, come si potrebbe pensare con la mentalità di un automobilista o passeggero di autobus. Per un popolo di pedoni e ciclisti era ideale, infatti copriva non solo le spalle e le braccia, ma anche le mani appoggiate sulle durevoli manopole d'osso sagomato del manubrio ed era discretamente impermeabile; quantomeno alla pioggia leggera ed alla nebbia bagnata, e sgrondava l'acqua esternamente alle ginocchia, se non addirittura ai piedi.
I tabarri più lussuosi, di lana leggera e morbidissima, erano doppi o, come si diceva, a "due dritti", di colori scuri in cadenza cromatica, ma si trattava di oggetti molto costosi e quindi rari. Oggi li definiremmo mantelli a ruota double-face di alpaca o vigogna.

A quel tempo, dopo l'abbattimento delle mura, la campagna pareva infiltrarsi anche profondamente nella città. Ricordo che fra la torre di San Francesco ed il vicino cimitero "fuori le mura" si estendeva un ordinato vigneto di uva nera, oggi diremmo di lambrusco salamino, che in settembre era particolarmente apprezzata da noi bambini che dovevamo eludere la sorveglianza del contadino e soprattutto del suo cane, molto più temuto.
In realtà, non era altro che un lupo bonaccione molto chiassoso che non si sognò mai di sbranare nessuno, neppure un ladro d'uva alto due braccia e con appetitosi polpacci nudi, sgambettanti sotto i corti calzoni di velluto che portavamo tutti alla fine dell'estate. Qualcuno di noi, infastidito dai calzoni alla zuava, continuava a portarli anche d'inverno, quando i cumuli di neve erano più alti di un bambino e trasformavano le piazze e le strade in labirinti.

Oggi il vecchio vigneto è diventato una fangosa terra di nessuno in attesa di trasformarsi in un rutilante centro commerciale, possibilmente fornito d'indispensabili pagode malesi o frontoni dorici, dopo essere stato per venti anni un polveroso piazzale dove sostavano i TIR ed i loro spaventosi rimorchi.


Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven. 19 settembre 2003 Invia un commento all'autore
"Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)

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