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09 marzo 2008

Null'altro, se non il fruscio delle calze di seta

mar. 30 settembre 2003 Null'altro, se non il fruscio delle calze di seta

Aprì il piccolo portafoglio di raso nero con i ricami di strass della nonna che continuava a portare come un portafortuna, un ricordo affettuoso di un'infanzia serena. Ad un'occhiata sommaria il telefonino sembrava all'erta. Evidentemente non poteva neppure telefonarle per avvertirla del ritardo. Lo spettacolo era incominciato abbastanza puntualmente e finito all'ora prevista. Lui di solito arrivava con molto anticipo e riusciva a conquistarsi un posto bene in vista sul lato opposto della piccola piazza del teatro affollata e aspettava che lei uscisse senza spazientirsi. Era sempre puntuale e gentile. Un contrattempo, sicuramente era stato trattenuto da un contrattempo. Di solito, l'aspettava nella penombra dell'abitacolo senza ascoltare la radio, senza leggere, senza fare nulla, mai. Gli facevano compagnia i suoi pensieri, diceva.

A teatro, però, non veniva più. Gli spettacoli avevano smesso d'interessarlo da un pezzo e per dare libertà di volo ai suoi pensieri preferiva la penombra silenziosa dell'auto al rumore di fondo causato dalle voci sul palco o dal cicaleccio dei conoscenti durante gl'intervalli. A volte restava ad aspettarla per l'intera durata dello spettacolo, se era breve, senza neppure rincasare.

Per accompagnarla continuava a vestirsi come se dovesse sedersi in platea anche lui. Chiaramente non era per pigrizia o avarizia che aveva ceduto la sua poltrona in abbonamento ad amici. Sosteneva di essersi accorto del suo disinteresse per quanto accadeva sulla scena quando, per un intero atto, non aveva prestato attenzione a null'altro se non al fruscio delle calze di seta della signora seduta accanto, quando accavallava le gambe. Era una vecchia amica di famiglia: persona gradevole e anche attraente, ma non così magnetica da assorbire ogni attenzione con il più banale dei movimenti in una sala semibuia, oltretutto. Quando, rincasando, gliene aveva parlato, anche lei aveva convenuto che bisognava pensare ad una destinazione sensata della poltrona in abbonamento: un bene prezioso da non dilapidare con leggerezza.
I taxi ormai si erano tutti partiti e anche gli altri spettatori si erano allontanati in fretta, come se fosse suonato il coprifuoco. Improvvisamente la piazza le apparve completamente vuota, non un'auto parcheggiata o l'eco dei passi di qualche ritardatario; anche i latrati e i guaiti lontani di una rissa remota fra cani erano cessati

Controllò nuovamente il telefonino, ma inforcando gli occhiali, questa volta. In un angolo del display vide il simbolo dei messaggi: era una stupida pubblicità della compagnia telefonica che offriva agevolazioni per chiamate dall'estero.

Il telefono funzionava, dunque, ma era silenzioso. Le sovvenne soltanto in quel momento che, per non disturbare, aveva disattivato tutte le suonerie, come sempre prima di entrare a teatro.

Con gli occhiali sul naso, guadagnò lo spiraglio sottile di luce vivida che usciva dal portone del teatro, accostato durante pulizie prima della chiusura notturna definitiva. Lasciandosi trasportare dal solco mentale di automatismi mille volte ripetuti, le sue dita riuscirono a riattivare i suoni. Per maggiore sicurezza, decise di tenere il telefono in mano. Fu come riattaccare la spina con il mondo. La certezza di essere raggiungibile l'aiutò a riacquistare lucidità e a formulare un piano d'azione: che cosa poteva fare? Chiamarlo senza ulteriore indugio le parve la mossa più ovvia e, potenzialmente, la più risolutiva, mentre, attendere il ritorno di un improbabile taxi non era che una soluzione di ripiego. Da quanti anni non prendeva più un taxi nella sua città, oltretutto?

La sua leggera giacca da sera, morbidissima e brillante come mercurio, la gonna stretta e corta, le scarpe scollate con il tacco alto non rappresentavano certo l'attrezzatura migliore per restare ferma al freddo della tramontana che aveva cominciato ad infilarsi sotto il portico. Doveva allontanarsi da lì.

Mentre si girava, un cane randagio dall'aspetto feroce la sfiorò improvvisamente trattenendo fra i denti un oggetto indecifrabile. Procedeva di sghembo volgendo la testa indietro come se temesse d'essere inseguito. L'aspetto sgradevole la costrinse a distogliere subito lo sguardo dall'animale, ma non in tempo per evitare l'impressione di avergli visto penzolare dalla bocca una mano insanguinata, gonfia e livida, come in un vecchio film di Kurosawa. Un brivido le percorse la schiena.
Si sporse dal portico per dare un'ultima occhiata alla strada prima di telefonare. Un deserto silenzioso, salvo per il rumore lontano di una spazzatrice automatica con i fari e i lampeggianti gialli accesi: un robot solitario guidato nel suo procedere, apparentemente insensato, dalla sporcizia di cui si nutriva mestamente, brucando qua e là per le strade rigorosamente deserte. Non un'anima in giro.

Estrasse dalla borsetta gli occhiali e compose il numero con attenzione. Il tono familiare di “libero”, la tranquillizzò, ma non fu interrotto da alcuna risposta. Ricompose il numero e lo lasciò squillare finché la linea non si staccò spontaneamente. Senza più esitare, decise di allontanarsi da quel luogo divenuto spettrale. Le sue belle gambe, fonte d'inesauribili successi, seppure non sportivi, presero a spingerla con buon ritmo a dispetto dei tacchi. Si mosse istintivamente verso casa, come fanno i vecchi cavalli esperti, se il birrocciaio dorme.

Stava avvicinandosi all'angolo terminale della facciata, quando avvertì inequivocabile il suono di passi pesanti e strascicati in avvicinamento alle sue spalle che le volte del portico echeggiavano e ingigantivano. Si fermò senza voltarsi per ascoltare meglio, senza lasciar trasparire l'apprensione che pure cominciava a percepire, quando la raggiunse una voce flebile, non minacciosa. Sembrava una richiesta d'aiuto, piuttosto. Si girò: uno spettro d'uomo irriconoscibile, dilaniato e sanguinante si trascinava verso di lei.
“Luisa...”
"Luisa... una banda di cani randagi ... sembravano lupi... avevano gli occhi rossi ... mi sono riparato la gola con un braccio, ma me l'hanno dilaniato... ho dovuto parcheggiare lontano da questo deserto per colpa di quel robot"

"Quale robot? Cosa ti è successo?"

"Quella maledetta spazzatrice famelica che si muove solo nelle strade vuote e insegue e divora qualunque residuo organico trovi sul cammino. I cani la seguono e le contendono le prede... Erano cani, ma feroci come lupi ... sembravano lupi, ma molto più grossi e aggressivi... cerca subito aiuto, muoio dissanguato... il capo branco aveva gli occhi rossi come braci accese, voleva ammazzarmi... non era un cane, mi ha strappato una mano... sono arrivati in città, sono lupi mutanti delle pianure orientali... bisogna prenderli prima che... cerca subito aiu..."



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar. 30 settembre 2003 Invia un commento all'autore
"Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)

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