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05 marzo 2008

gio. 18 novembre 2004 In proporzione

Della moltiplicazione dei pani e dei pesci era stato informato da bambino, anche se la vicenda gli aveva lasciato qualche dubbio, all'epoca, ma quando vide che la sua vecchia teiera, sulla quale aveva fermato lungamente lo sguardo soprappensiero, si era gonfiata, credette di avere le traveggole e cercò di convincersi che era sempre stata di quella dimensione. Ubriaco non era, dopo due sole tazze di te al latte e qualche frollino rigato. Neanche i più fantastici miracolatori del West si erano mai vantati di riuscire a trasformare il te in whisky, nonostante fossero identici da vedere in un bicchiere. Per quanto ne sapeva, al massimo si poteva far pagare per whisky il te bevuto dalle entreneuse nei night di terz'ordine, se il cliente che sganciava i dollari era un autentico credulone, possibilmente ubriaco di whisky vero. Un fatto era certo: era sobrio come un pozzo.

Così, a scanso di equivoci, lasciò la teiera sul tavolo, si accese la pipa e se ne andò a fare una passeggiata con il cane, contento come una pasqua del giretto fuori ordinanza, a metà del pomeriggio. Qundo tornò il sole era già tramontato e la casa era rimasta sola e al buio. Non gli piaceva trovarla così addormentata al suo rientro; preferiva trovare una luce accesa che gli desse il benvenuto. Cambiò l'acqua nella ciotola del cane che era assetato, gli diede qualche bocconcino e una strapazzata affettuosa e decise che era ora di cena anche per lui. Non aveva bisogno di guardare la pendola per saperlo. Viveva da solo con il cane, persona gentile e dalle abitudini informali, e i suoi orari erano molto elastici: mangiava quando ne aveva voglia, ma apparecchiava per bene come se fosse a palazzo Braschi, diceva lui, anche se da qualche anno, vestiva in modo molto casual, qualcuno avrebbe potuto dire come un barbone.

Prima di stendere la tovaglia fu necessario sgomberare la tavola. Ripose il vaso ermetico dei biscotti, il bicchiere di cristallo tagliato con la marmellata, la zuccheriera d'argento, afferrò il bricco del latte e la tazza sporca, uno per mano, li lavò, li asciugò e li ripose nella credenza, come sempre. Aveva la fisima dell'ordine, che nella sua visione del mondo, richiedeva che i muri fossero liberi da quadri e le superfici orizzontali dei mobili completamente sgombre, in particolare il ripiano scanalato del lavello doveva sempre essere libero e asciutto, al termine delle incombenze di rigovernatura.

Quando tornò in camera da pranzo, la vide troneggiare sola in mezzo al tavolo. Non era mai stata così... imponente. Non c'è dubbio: era cresciuta. Non si era deformata, era semplicemente più grossa, quasi maestosa: una signora teiera. Per svuotarla e riporla dovette usare entrambe le mani: era anche pesante. Stranamente questo fatto lo riconfortò:aveva mantenuto la giusta proporzione. Nei giorni successivi non accadde nulla di strano, semplicemente decise che non aveva più voglia del te pomeridiano. La domenica successiva andò in piazza con il cane. Non era il tipo che si sarebbe vestito per la festa, anche se lo avesse saputo, ma si accorse che c'era un'animazione insolita: bandiere, ragazzi, il suono di una banda ancora lontana, invece dei soliti vecchi che la popolavano sempre, se il tempo non era troppo scoraggiante. Era festa, insomma, non la solita domenica feriale. Ci mise poco a rendersi conto che doveva essere il primo Maggio. Era arrivato, ancora una volta, così all'improvviso. Si guardò in giro: sembravano tutti forestieri. A parte il suo cagnolino, non c'era neanche un cristiano conosciuto.
Guardò in alto, sopra le rondini e si mise a fissare la cupola che spuntava dietro i palazzi. Mentre la osservava, dapprima distrattamente poi con sempre maggior concentrazione, gli apparve più monumentale e più splendente del solito, una meraviglia degna di Brunelleschi. Anche i vetri della lucerna sembravano appena lustrati, luccicavano al sole, ci si sarebbe potuti specchiare. Guardò meglio e vi scorse la sua faccia: la solita faccia di tutti i giorni, ma la gente, invece, sembrava non accorgersi di tanto splendore. Guardavano a terra, apparivano lontani, piccoli e insignificanti. Restavano immobili sul pavimento o si muovevano a scatti, senza senso, come scarafaggi notturni, spaventati dall'accensione improvvisa di una luce. Per non calpestarli, rimase immobile, mentre la cupola continuava a crescere sotto il suo sguardo. Ma le proporzioni restavano corrette e altrettanto conforme sarebbe stato il peso, se avesse potuto misurarlo. Ne era certo.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio. 18 novembre 2004 Invia un commento all'autore
"Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)

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