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03 giugno 2021

Al savor


I vasetti che erano destinati a contenerlo erano una legione straniera.
Qualsiasi provenienza, taglia ed originale vocazione erano accettati.
Tutti, alla fine, avrebbero condiviso, in ordine sparso, lo stesso contenuto e la stessa destinazione: uno stretto scaffale nel cantinino dell'aceto.
Era un piccolo locale che si affacciava sul cortile dove si aprivano le porte delle altre cantine e della grande lavanderia.
Fino al momento in cui i vasetti sarebbero rientrati in casa per essere svuotati del loro prezioso contenuto durante l'inverno, avrebbero condiviso la stessa aria profumata d'aceto con le spesse bottiglie nere di lambrusco e le tre botticelle che contenevano il prezioso aceto di famiglia e sprigionavano il profumo.
Erano tre piccole botti di misura decrescente nelle quali maturava nel corso degli anni anni l'aceto che si consumava da generazioni in famiglia.
Il rito annuale dell'aceto, s' iniziava con il travaso del contenuto della botte mediana nella più piccola dalla quale, e solo da lei, si sarebbe spillato dall'alto il profumato liquido rosato pronto da portare in tavola.
Ogni anno d'invecchiamento rendeva l'aceto più forte e ne dimezzava il volume.
Dopo aver travasato il giovane aceto di un anno, ormai dimezzato, dalla botte grande in quella mediana appena svuotata, si poteva completare il rito versando lentamente una trentina di litri di vino bianco secco nella botte maggiore.
Tutti i travasi si svolgevano spillando, con devota circospezione, il liquido dall'alto attraverso il foro superiore,
Dorante l'operazione, era importante non turbare la preziosa madrama, depositata sul fondo di ciascuna botte, che avrebbe trasformato, con lenta maturazione, il vino bianco in un aceto rosso, forte e profumato.
In compagnia di così nobili e longeve presenze, i piccoli vasetti avevano una vita breve, ma non certo meno apprezzata, almeno da me.
Infatti, contenevano il “sapore", "savor" in dialetto emiliano.
Era una cremosa confettura dal colore bruno non troppo dolce da spalmare su di un crostino di pane o usare come ripieno in una croccante crostata.
La sua preparazione avveniva negli ultimi struggenti giorni di settembre alla fine delle lunghe vacanze estive, durante la vendemmia del lambrusco: l'uva da vino e da mosto delle nostre parti.
Anche io avevo partecipato alla vendemmia raggiungendo al tramonto il podere di famiglia a Fossoli, dove avevamo bei filari di vite sostenuta da olmi, secondo la tradizione secolare rispettata nelle nostre campagne.
All'ora di cena, quando ero bambino, Luisa ed io tornavamo a casa con un fiasco di latte tiepido appena munto, e una sporta d'uva appena vendemmiata.
I grappolini, ancora tiepidi di sole, erano dolcissimi da mangiare a morsi sporcandosi la faccia del loro succo zuccheroso, ma bisognava lasciarne per fare la sapa.
La sapa, saba in dialetto, è uno sciroppo denso, molto dolce e dal colore scuro che può essere bevuto diluendolo nell'acqua oppure, allo stato puro, può essere usata per dare un sapore delizioso alla neve raccolta in una tazza, quando è ancora bianchissima e soffice, appena dopo una nevicata.
Per ottenere la saba bisogna fare bollire per ore il mosto fino a quando il suo volume iniziale non si è ridotto di due terzi.
A questo punto, mentre è ancora calda, anziché imbottigliarla, si può adoperarla per preparare il savor aggiungendovi cubetti di pere, mele cotogne, mele, scorzette di limone e arancio seccate e gherigli di noce sminuzzate.
Il preparato deve continuare a bollire per ore fino ad ottenere una confettura densa e scura pronta per essere trasferita, ancora calda, nei vasetti di vetro.
Fortunatamente, al bambino di casa restava da raschiare il fondo del grosso tegame sul quale si era attaccato un velo un po' bruciato di savor ancora caldo e squisito: il sapore delle vacanze ormai finite e del malinconico ritorno nella grande città.

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