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09 marzo 2008

Nel primo anno di pace

mar. 23 settembre 2003 Nel primo anno di pace

Nel primo anno di pace, anche trovare un albergo sulle Alpi che potesse accogliere per una vacanza estiva la quarantina di soci del Club alpino Italiano, sezione di C. non era impresa banale. Di questa vicenda e delle difficoltà incontrate dagli organizzatori non so nulla di certo perché all'epoca avevo tre anni ed ero la mascotte del gruppo affiatato di amici che amavano la montagna e volevano gettarsi dietro le spalle gli orrori ed i dolori della guerra per ricominciare una vita civile normale e, possibilmente, piacevole.

Ricordo molto vagamente, per i successivi racconti più che per memoria diretta, il viaggio avventuroso per strade bianche in parte danneggiate da anni d'incuria e di miseria ancor più che da colpi di mortaio. I cartelli stradali sopravvissuti erano particolarmente rari e ogni bivio si presentava come un rompicapo. Lasciata la pianura, per imboccare la strada giusta bisognava conoscere il percorso per scienza propria o riuscire a stanare qualcuno fra i monti che sapesse fornire indicazioni utili e comprensibili.

L'italiano non era affatto una lingua universale in Italia e, anche chi lo parlava, molte volte non era in grado di spiegarsi chiaramente. Non di rado le indicazioni contenevano riferimenti a luoghi noti solo ai valligiani e, a volte scomparsi da anni, fuorché nella memoria dei sopravvisuti.

A rendere più complessa la spedizione c'era la disparità di efficienza arrampicatoria fra la corriera, una lumaca a carbonella stracarica di provviste, oltreché di passeggeri e dei loro bagagli e l'ancora più lenta moto Guzzi con sidecar che trasportava il cuoco, il suo aiutante e tutto il rumoroso, indispensabile pentolame di cui l'albergo si era dimostrato sprovvisto al momento di stipulare il contratto di affitto.

Così accadde che, quando la corriera si fermò in mezzo alla strada all'ennesimo bivio, sia per appurare il percorso da tenere, sia per aspettare cuoco, garzone e pentole, lasciati indietro e presumibilmente arrancanti su qualche ghiaioso tornante, la sosta si tinse di suspense.

I sedili erano scomodi, il viaggio lungo e scendere per sgranchirsi le gambe non dispiaceva a nessuno, ma dopo mezz'ora in cui erano state esaurite tutte le possibili lodi all'aria fina e fresca, ai boschi silenziosi di abeti colonnari, allo straordinario rigoglio delle felci e alla magnificenza di colori delle rare farfalle cominciò a serpeggiare il fastidio e poi l'ansia per le sorti del cuoco: il solo essere umano indispensabile di tutta la compagnia.

L'ipotesi che avesse imboccato il percorso sbagliato ad uno dei bivi precedenti era fin troppo ovvia, ma nessuno avrebbe potuto azzardare ragionevolmente dove fosse accaduto il fattaccio e, tantomeno, avrebbe potuto suggerire come inseguirlo e riportarlo sulla retta via, così prevalse la posizione attendista, più che per sincera fiducia in questa strategia perché appariva la più praticabile.

Quando però ci si rese conto che si avvicinava il tramonto, ma non il cuoco tutti consentirono che era inevitabile riprendere il cammino per evitare di viaggiare al buio e rischiare una notte all'addiaccio "con donne e bambini". Giunti finalmente in albergo quando il lago rispecchiava gli ultimi riflessi rosati di un lungo crepuscolo, tutti si sistemaro meglio che poterono, rinunciando a qualsiasi pretesa di cena.

Del cuoco nessuna notizia finché, nel cuore della notte, comparve fragorosamente spignattando e, prima di spegnere l'ansimante monocilindrico, parcheggiò spavaldamente moto e sidecar nel centro del cortile dell'albergo come se avesse in testa un elmo chiodato.
Fra coloro che scesero ad accoglierlo con pacche festose ci fu chi annusò nell'aria un allegro profumo di grappa: la notte è fredda in alta montagna.

Quando ci risvegliammo dopo la prima notte movimentata nel nuovo albergo sconosciuto fummo guidati alla sala da pranzo dal profumo del pane. Miracolosamente, il cuoco dato per disperso, era riuscito a farsi perdonare completamente il suo madornale ritardo e l'apprensione che aveva provocato in tutti noi, sfornando il pane caldo in tempo per la colazione. Il latte era ottimo e anche questo "prodotto in casa" dalle mucche che pascolavano liberamente nei prati dintorno all'albergo che, alla luce piena del giorno, rivelò il sua presente degrado, sovrapposto ad un passato più che dignitoso.

Aveva perduto quell'aria linda e accuratina, quasi stucchevole, tipica del Tirolo, di qua e di là dai monti, ma rivelava ancora chiaramente la sua natura di luogo di villeggiatura per un pubblico competente e privilegiato.
Dalle finestre della sala, tappezzata con le solite doghe di abete, si vedeva un lago limpidissimo e calmo, uno specchio immoto per gli abeti e le montagne maestose che lo circondavano: una cartolina vera, fatta e sputata.

Sull'onda dell'euforia di ritrovarsi tutti sani, salvi, cuocodotati, benmangiati e circondati da una bellezza naturale perfino superiore alle attese fu presa la decisione d'immortalare la situazione con una foto storica di gruppo ad imperituro ricordo di quella ripresa dell'attività del Club, dopo la luttuosa parentesi.

Lo stretto imbarcadero che, sopravvissuto alla guerra, si spingeva una dozzina di passi dentro al lago per offrire, in epoche più felici, l'approdo alle barchette a remi dei villeggianti parve il luogo più panoramico e caratteristico per consentire alla gloriosa Agfa Isolette a soffietto di M., giovane veterinario e appassionato fotografo d'immortalare il gruppo intero sullo sfondo dei monti rispecchiati dal lago. Di meglio non si poteva sperare per passare degnamente alla storia.

Il manufatto su palafitte, risalente probabilmente agli anni trenta, appariva grigiastro e triste come accade al legno dopo lunga esposizione e mancanza di pitturazioni protettive, ma non scricchiolava più sinistramente di quanto fosse ragionevole aspettarsi, tuttavia la resistenza delle tavole era più compromessa di quanto non apparisse e si rivelò in modo tanto inatteso quanto improvviso.

Al momento del fatidico sorriso del gruppo, compattato per esigenze fotografiche in uno spazio troppo esiguo, senza preavviso alcuno né scricchiolii premonitori, l'mbarcadero cedette di botto, lasciando al lago poco profondo, ma gelido, il compito di attutire la caduta e risvegliare l'istinto di sopravvivenza di ciascuno dei prodi alpinisti d'acqua dolce.
Il solo rimasto all'asciutto, con la macchina fotografica ancora al collo, si tuffò senza esitare nell'acqua per ripescarmi istantaneamente, fedele al suo ruolo di amico, il più caro e affettuoso che una sorte benevola mi abbia regalato per addolcire una vita intera.

Così accadde che il solo ricordo di quel bagno istantaneo furono i grandi biglietti da mille, veri lenzuoli, che fluttuavano mollemente nell'acqua limpida, in libera uscita dalla borsetta di mia zia I., una seconda madre, una nonna, una sorella maggiore inviata dagli dei per il mio benessere e la mia felicità nei lunghi periodi di vacanza e non solo.

Una vigorosa strigliata con asciugamani asciutti e un massaggio con borotalco mi riportarono alla condizione normale di bambino inconsapevole del pericolo a cui era capitata un'avventura divertente da ricordare.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar. 23 settembre 2003 Invia un commento all'autore
"Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)

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